Venivamo tutte per mare.

 


Autore: Julie Otsuka

Titolo: Venivamo tutte per mare.

Trama: Una voce forte, corale e ipnotica racconta la vita straordinaria di un gruppo di donne – le cosiddette «spose in fotografia» – partite dal Giappone per andare in sposa agli immigrati giapponesi in America, a cominciare dal loro primo, arduo viaggio collettivo attraverso l’oceano. È su quella nave affollata che le giovani, ignare e piene di speranza, si scambiano le fotografie dei mariti sconosciuti, immaginano insieme il futuro incerto in una terra straniera. Seguirà l’arrivo a San Francisco, la prima notte di nozze, il lavoro sfibrante, la lotta per imparare una nuova lingua e capire una nuova cultura, l’esperienza del parto e della maternità, il devastante arrivo della guerra, con l’attacco di Pearl Harbour e la decisione di Franklin D. Roosevelt di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici

Prezzo di copertina: 9,90 euro.


Recensione.

Sono rari i libri che sanno conquistarti dal semplice prologo, questo è uno di quei casi. La bellezza del prologo è fedele all'intero romanzo, ci troviamo di fronte ad uno stile narrativo corale che accentua la profondità della vicenda narrata, straripa tra i bordi e ci attraversa in singulti di vite, che non sono la nostra, eppure, la sentiamo appartenerci.
Venivamo tutte per mare si apre con queste giovani ragazze a bordo di una nave intente ad affrontare un lungo viaggio, che le cambierà per sempre. Lasciano il Giappone, la loro patria, per la promessa di una nuova vita: il sogno americano ancora sfocato all'orizzonte. Sono partite con i loro ricordi, i loro kimono nuziali e tengono strette al petto le fotografie dei loro futuri mariti.
In poche pagine si riesce a dare lo spaccato di un periodo di profonda crisi all'interno del Giappone imperiale, dove molte famiglie di contadini e pescatori, lontani dalle cacofonie delle città, vivono di stenti e sono costretti a vendere le loro figlie o lasciarle partire per un futuro più roseo... sapendo con un po' di vergogna e un po' di soddisfazione che presto si avrebbe avuto qualche bocca in meno da sfamare.
Ed eccoci su questa nave in cui queste numerose fanciulle stringono amicizia e preferenze, parlano dei loro luoghi amati, confrontando gli accenti diversi della medesima patria, e si scambiano le fotografie, lettere, degli uomini che le attendono. Ci sono sogni, speranze, paura, fragilità, tutto in continua oscillazione che avanza lento verso una nuova terra.
Tuttavia, la realtà è differente dalle menzogne raccontate dalle lettere e dalle fotografie inviate. E queste ragazze scopriranno nel peggior dei modi d'esser state ingannate. Riuscite ad immaginarlo? Essere appena sbarcate in una terra completamente straniera è sentirsi già alla deriva. No, non vivranno in piccole case moderne americane ma in baracche e tende di fortuna, dove passeranno le intere giornate a stare chine a raccogliere o a seminare. Passeranno le notti insonni, girandosi e rigirandosi nel letto col cuore gonfio di dolore pensando alla loro terra lasciata oramai alle spalle, lontana quasi irraggiungibile mentre accanto avranno uno sconosciuto divenuto loro marito. Per cosa? Una promessa di vita che non è mai stata possibile. E la voce corale si chiederà, sussurrando o urlando contro, a cosa è valso mettere da parte i sogni e far tacere i desideri per arrendersi ad un destino che non doveva essere loro?
Ma non finisce qui, queste ragazze, che in fretta stanno diventando donne, scoprono che l'America non è il paese dei sogni, non per loro. È una terra ostile, violenta, brutale. Vengono trattati come estranei, mera mano d'opera, che non deve alzare la testa. E si crea un piccolo organismo all'interno della società americana che prova a rimanere a galla, unendosi e riconoscendosi tra di loro, cercando di non dimenticare se stessi; anche se è difficile.
La narrazione è intima, riflessiva ed estremamente malinconica. Le pagine scorrono tra di loro con una fluidità sorprendente. Le protagoniste sono giovani donne che mutano nel corso del tempo. Iniziano a parlare qualche parola spiccia in un inglese storpiato, prendono dimestichezza con i modi schietti e aperti degli americani, cercano disperatamente di mettere radici.
In questa prima parte del romanzo è davvero emozionante notare come queste donne siano resilienti e allo stesso tempo si scuciono, pian piano, per poter sopravvivere. Donne, lavoratrici e anche madri.
Improvvisamente arriva la guerra, mentre Perl Harbor brucia la vita di queste nostre protagoniste verrà scossa in modo repentino. Adesso, il giapponese è il nemico.
Gli atti razzisti sono all'ordine del giorno: i luoghi in cui non sono ammessi, le paure, di vetri rotti e fiammiferi accesi li costringerà dormire con le scarpe allacciate, pronte a scappare da un odio che non comprendono appieno. E l'ossessione di questa fantomatica lista, in cui i loro nomi potrebbero finire come possibili nemici, li consumerà pian piano in un'attesa straziante. L'attesa di non sapere cosa ti succederà. E qui inizia il dubbio, lento e cattivo, che si sparge nella piccola comunità giapponese. Pensano che siamo spie? Ci verranno a prendere? Cosa ci accadrà?. Il clima diventa saturo di terrore e di violenza ingiustificata.
La narrazione si gonfia, è amara, cruda e brutale.
Un piccolo accenno mi piacerebbe fare anche verso i figli di queste donne. I primi ad essere a tutti gli effetti cittadini americani per nascita che non vengono accettati. Fin da piccoli imparano a non dar peso agli insulti,a non poter andare in certi posti come il cinematografo in centro. A non alzare la testa perché sarebbe inutile. Indipendentemente, staranno dalla parte del torto. Pur discostandosi ai genitori, pur parlando un inglese madrelingua, pur rinnegando di voler utilizzare le bacchette per mangiare o andare al tempio. Questi ragazzi vivono in un limbo asfissiante che con la guerra si acutizza ad un livello inconcepibile. Loro non si sentono giapponesi, non hanno un effettivo legame con una patria che non hanno mai visto e solo ascoltato i racconti trasognati delle loro madri. Tuttavia, non vengono neanche riconosciuti come veri americani perché sono etichettati come giapponesi, amici di invasori e nemici della loro stessa casa. È una situazione paradossale.
Il romanzo accenna anche ad uno dei momenti bui della storia americana: l'internamento dei giapponesi del 1941, attuato dal presidente Roosevelt con l'Ordinamento esecutivo 9066. I giapponesi vengono deportati nell'entroterra americano in campi di lavoro, dove non avranno nessuna libertà di movimento o di parola. Costretti ad abbandonare la loro vita, le loro case e le loro piccole attività sudate dopo anni di lavoro... tutto per la base di un pregiudizio razziale, che non spiega nulla. I giapponesi sono nemici perché sono giapponesi, sembra assurdo solo parlarne, eppure è un fatto successo realmente.
Venivamo tutte per mare è un libro potente, non solo per la storia toccante narrata ma soprattutto perché ha il coraggio di parlare di un pezzo di storia americana spigoloso e contraddittorio. Un romanzo necessario che da voce a chi non l'aveva.


Ti consiglio questo romanzo se:

  • Cerchi un romanzo breve ma intenso.
  • Ti piacciono i romanzi a sfondo storico
  • Non sai cosa leggere, lasciati sorprendere.

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