American serial killers. Gli anni dell'epidemia 1950-2000


Autore: Peter Vronsky

Titolo: American serial killers. Gli anni dell'epidemia 1950-2000

Trama: I fan di "Mindhunter" e della docuserie "Dahmer" divoreranno le storie agghiaccianti di questi serial killer della "Golden Age" americana, l’età dell’oro degli assassini seriali (1950-2000). Con libri come "Serial Killers", "Genesi mostruose" e "Sons of Cain", Peter Vronsky si è affermato come il massimo esperto di storia dei serial killer. In questo primo autorevole saggio sulla "Golden Age" dei serial killer americani, gli anni in cui il numero di assassini seriali e la conta dei corpi esplosero, Vronsky racconta le storie degli omicidi più insoliti e importanti dagli anni ‘50 all’inizio del ventunesimo secolo. American Serial Killers offre ai veri appassionati di true-crime ciò che più che desiderano, passando dalle storie degli assassini più famosi (Ed Kemper, Jeffrey Dahmer) a quelle dei casi meno noti (Melvin Rees, Harvey Glatman).Un saggio storico e sociologico avvincente e approfondito. Perfetto per i fan del true-crime dallo stomaco forte.

Prezzo di copertina: 18,05 euro.

Recensione.

Lo dico fin da subito: questo saggio non è per tutti. Soprattutto per persone impressionabili.
Il volume, ovviamente, tratta di argomenti sensibili e molto forti. Se siete fan del true-crime come me, invece, questo libro è per voi. Ripeto, prendete le dovute cautele.
La NuaEdizione pubblica sempre piccole meraviglie. E ci porta in Italia uno degli ultimi saggi di Vronsky.
Il saggio è ben dettagliato e davvero ben scritto. C'è sempre la curiosità mista a terrore nel tentare di analizzare le azioni dei diversi assassini, alcuni che preferivano tenersi ai bordi della società, non visti, altri, invece, apparivano ben intessuti nella società da apparire come insospettabili. Il pensiero va alle vittime, a ciò che hanno dovuto subire nei loro ultimi istanti e non solo.
Un nodo ti stringe lo stomaco.
La narrazione di Vronsky è pulita, priva di fronzoli, capace di arrivare al lettore come un pugno ben assestato. Riesce ad incollarti in ciò che racconta, nei suoi ragionamenti mentre srotola di fronte a noi decenni e decenni di casi efferati e serial killer differenti tra di loro.
Tra gli anni Sessanta e i Novanta l’America conosce una vera e propria “epidemia” di serial killer. Casi divenuti celebri, grazie anche alla copertura mediatica del proprio periodo e dalla capacità degli assassini di colpire con la loro inaudita e grottesca violenza.
Ci sono nomi “celebri” che conosciamo un po' tutti: Bundy, Gacy, Kemper, il figlio di Sam, Ramirez, Dahmer. Insomma, titoli da prima pagina, che danno il via ad un vasto filone che cerca di interpretare, sceneggiare e approfondire il fenomeno degli assassini seriali. Ma il libro ce ne mostra molti altri, rimasti inspiegabilmente nell’ombra. Assassini furbi, violenti, brutali, privi di sapersi fermare.
Uno degli aspetti interessanti del saggio è quello di saperci mostrare come la potenza mediatica sia fondamentale nel rendere “indimenticabile” un serial killer.
Esempio per comprendere questa grande verità: sappiamo tutti, a grandi linee, chi sia stato Jack lo Squartatore, un assassino sconosciuto che riuscì a terrorizzare Londra a fine dell’Ottocento. Ebbene, vicino alla finestra di questo periodo, in Louisiana un assassino a colpi d’ascia uccise più di quaranta vittime, un fatto orribile caduto nel dimenticatoio. Perché, invece, lo Squartatore londinese con poche vittime attribuitegli riuscì a divenire assai celebre?
La risposta è una sola: la potenza mediatica. All'epoca il noto caso di Jack lo squartatore ebbe una copertura mediatica da capogiro.
Attenzione: non parliamo di “popolarità” in senso positivo del termine, ovviamente. Ma un esempio del genere rende chiaro come la conoscibilità di un assassino seriale venga favorita da importanti fattori che non dovrebbero essere trascurati: società dell’epoca, la geografia, il progresso e soprattutto le vittime.
Ebbene sì, ci sono vittime che scuotono l’opinione pubblica molto meglio di altre vittime.
Abbiamo le vittime che riescono a provocare sconcerto e turbamento nella popolazione, avida di saperne i dettagli e i motivi. E vittime che l’autore definisce “i meno morti”: prostitute, vagabondi, poveri, anziani, persone di colore, ragazze di “promiscuità sessuale”. E qui prendiamo in esempio il killer della casa degli orrori, Calvin Jackson, sconosciuto ai molti proprio per la scelta di vittime “meno morte”.
La potenza mediatica detiene un potere immenso nel rendere indelebili i serial killer. E i media andavano a caccia di notizie da far finire in prima pagina, da parlarne nel telegiornale della sera. Inizia ad attecchire una cultura morbosa sugli assassini seriali, che vedrà un suo pieno e completo sviluppo solo dagli anni Ottanta in poi. Una domanda lecita da porsi sarebbe: ma perché genera tutto questo scalpore e una curiosità un po’ morbosa?
L’autore ci dà una risposa: i tabù, che questi assassini portano con sé, per la loro natura mostruosa unita ad atti impensabili compiuti con una freddezza che incute il più vivido terrore.
Eppure, non riusciamo a distogliere lo sguardo. Nomi che riescono a riscuotere terrore e fascinazione.
Ma ce ne sono molti altri meno noti che portano con sé una medesima crudeltà e violenza.
L’autore scegli di concentrarsi su solo alcuni di loro, fondamentali per spiegarci l’andamento della curva epidemica, e di una determinata categoria dei serial killer: quelli legati alla violenza sessuale.
Nella medesima categoria ci si differisce per una serie di fattori, che non dovrebbero essere sottovalutati: c’è chi adopera una violenza controllata, moderata, che riesce a non “allarmare”; c’è chi, invece, si lascia andare ad una violenza brutale, immediata e disorganizzata.
Vronsky dice una cosa importantissima ad inizio saggio, ovvero che ci sono tantissimi casi di serial killer che non hanno conosciuto la potenza mediatica...e tuttavia, non sono meno a chi è stato reso celebre. Paesi in cui, magari, ancora non erano diffusi i giornali; notizie lasciate ad ingiallire in archivi sconosciuti. Ma la violenza, come ci avverte l’autore, ha sempre fatto parte della storia umana; e Vronsky svolge un veloce excursus di omicidi seriali per definire come gli omicidi seriali siano mutati nel tempo.
L’autore analizza molteplici casi di assassini americani in periodi differenti, con situazioni socio culturali parecchio diverse. Anche se, leggendo, iniziamo ad essere consapevoli di una sorta di pattern che accomuna molti serial killer: desiderio di controllo, rabbia irruenta, furti feticisti, traumi alla testa infantili, problemi familiari dove spesso c’è il binomio madre severa-padre assente.
Ovviamente, parliamo di casi dove ancora la parola serial killer non era stata coniata, non vi era l’esistenza di profili psicologici. Le forze dell’ordine erano alla deriva di fronte a questa violenza sistematica. E, come ho già detto, il periodo storico gioca un ruolo fondamentale in tutto il contesto. Prendiamo gli anni 30, c’era parecchia ingenuità nella popolazione, si lasciavano i bambini da soli, si accettavano passaggi da sconosciuti, dunque, i serial killer si spostavano con facilità e arrivavano a bussarti alla porta di casa.
Ovviamente, affrontiamo anche altri problemi correlati. Tra cui, l’incompetenza della polizia, che non riusciva ad inquadrare l’impensabile, ovvero che ci fossero assassini che uccidevano in maniera ripetuta; ma anche il diverso atteggiamento della opinione pubblica sulle differenze delle vittime. Inoltre, molti serial killer noti sono affetti da psicopatia. All'epoca, tuttavia, non esisteva questa branca di psichiatria, e non vi era la conoscenza che un fattore fondamentale della psicopatia è proprio il basso livello di emozioni.
Dunque, non si riusciva a comprendere la serie di comportamenti/bisogno/pulsione che li spingeva a cercare sempre l’emozione illecita; qualcosa, insomma, di forte capace di arrivargli: il rischio di ciò che si stava compiendo, la paura e il dolore altrui.
Il saggio ci fa analizzare una prospettiva parecchio interessante, e forse non tanto presa in considerazione. L'epidemia dei serial killers degli anni 60-80 è “favorita” dal tipo di società che è impostata, con tutte le scoperte e febbre dell’epoca.
Ma Vronsky evidenzia come si deve necessariamente essere tenuto in considerazione il periodo in cui questi futuri assassini seriali nascono e crescono. Quindi facciamo un passo all’indietro, tornando ad analizzare il tessuto sociale, economico e culturale degli anni 30-50.
Un periodo denso di malessere e cambiamenti radicali che segnano nel profondo: la disillusione americana, Depressione, segregazione, il razzismo, due conflitti mondiali.
I punti focali della narrazione si allargano a macchia d’olio, riuscendo a darci un ritratto vasto e dettagliato di come tutto ciò possa influire sulle modalità di pensiero, azione e formazione dei serial killers a venire.
Il saggio ci mostra anche come i serial killer possano essere totalmente differenti tra di loro, anche se rientrano nella stessa categoria di reati sessuali. C’è chi seguiva un modus operandi, c’è chi lo cambiava, invece, per essere meno rintracciabile (prendiamo in esempio Cottigham, lo squartatore di Times Square); c’è chi seguiva la pulsione, improvvisa e brutale; c’è chi studiava a fondo la vittima prima di agire. E ancora, c’è chi desidera essere riconosciuto e chi non sarà mai scoperto (il killer dello zodiaco non è stato ancora identificato), o chi lo sarà solo dopo molto tempo dopo, e qui mi viene in mente De Angelo, il golden state killer del 75’ arrestato solo nel 2018, o il famoso killer BTK arrestato nei primi anni duemila.
E poi vi sono serial killer che desiderano “accrescere” il numero di vittime per soddisfare il loro ego appropriandosi anche di casi aperti e irrisolti, e qui cito il serial killer che ha mentito ammettendo omicidi non suoi, dal quale deriva anche il nome della sindrome “Herny Lee Lucas”.
Ma non solo, troviamo anche serial killer che si autodenunciano dopo aver finito il “loro compito” e qui troviamo Kemper. O ancora serial killer che riescono ad essere presi per errore (Rolling) e serial killer che invece svaniscono, lasciando dietro di loro l’orrore e la morte che hanno seminato.
Ne emerge un quadro assai complesso che non segue una sola strada, ogni caso è a sé. Deliranti, schizofrenici, razionali, lucidi, convinti e disagiati. A guidarli erano fantasie, allucinazioni, convinzioni, bisogni.
L'autore è metodico nel costruirci un quadro di una moltitudine di fattori sociali e politici, di traumi silenziosi, che divennero le basi solide per lo sviluppo della più alta e violenta epidemia di serial killer: la guerra del Vietnam, gli assassini dei Kennedy e di King, le certezze di una nazione che iniziano pericolosamente a vacillare, l’incremento della violenza, culti di apocalisse...gli anni 70 stavano per esplodere con una forza inaudita di brutalità.
Infatti, negli anni 70’ apparvero 605 serial killer, un numero inconcepibile che fa paura. Questo per evidenziare come sia stato un decennio assai “fertile” in questo caso.
Ovviamente, tra tutti spiccano alcuni assassini seriali atipici. Prendiamo Kemper in esame, il killer delle studentesse, che dopo aver ucciso la madre e dunque, a modo suo, aver portato a realizzazione il suo compito si autodenunciò per farsi arrestare. Kemper è un assassino fondamentale per i mindhunters dell’FBI che stavano finalmente iniziando a comprendere questi assassini seriali e cosa li scatenasse.
Ma negli anni 70 troveremo un altro serial killer che scuoterà l’intera America, proprio perché sbatte in faccia una scomoda verità che si fa fatica ad accettare: i serial killer non sono solo disagiati, uomini con un passato di traumi e povertà.
Arriva Ted Bundy è tutto cambia.
Il tipico ragazzo d’oro americano che nasconde una crudeltà e brutalità inimmaginabili. L'autore del nostro saggio lo definisce il primo serial killer post-moderno.
In un periodo fertile del genere, la domanda sorge spontanea: perché non vennero presi in tempo?
Furono diversi serial killer a cui fu lasciato campo aperto, proprio in quanto la polizia non era minimamente preparata a poter collegare omicidi seriali. Molti dei quali accadevano in contee differenti, dunque avveniva la “cecità dei collegamenti” ovvero il fatto che le giurisdizioni non si scambiavano mai informazioni tra di loro, rendendo la strada facile a molti assassini in movimento. E tutto ciò, unita all’incapacità di non riuscire a fermare i serial killer, iniziò a divenire un problema maggiore di cui si inizia a parlare.
Gli anni Ottanta, con l’aumento dei serial killer, iniziò a farsi strada i profiler dell’FBI, all’epoca meglio noti come i mindhunters. E qui troviamo Teten e Myllany che sostennero come gli assassini seriali fossero maggiormente motivati dalla loro personalità e quotidianità piuttosto che da pulsioni inconsce e dall’ambiente circostante. Era l’inizio di una rivoluzione in quel campo, che avrebbe finalmente dato strumenti utili per oliare meglio il procedimento complesso che si mette in atto per stanare un serial killer.
Furono passi da giganti, il primo caso profiling dell’FBI che riuscì a determinare il profilo vincente e dunque l’arresto fu il caso di David Meirhofer.
L'autore evidenzia come anche gli anni 90’ vengano caratterizzati da altri serial killer con metodi agghiaccianti... anche se il numero medio per vittime inizia a diminuire.
Inoltre, finalmente, nell’era epidemica dei serial killer in calo inizia ad entrare in campo una nuova componente fondamentale: il DNA. Un cambiamento importantissimo nelle indagini di omicidio.
In conclusione, un saggio che riesce a farti avere una visione totale periferica del momento di epidemia dei serial killer, gli elementi fondamentali sociali che hanno spinto la curva epidemica al suo maggior punto. 
Un saggio a dir poco interessante. Sono curiosa di leggere altro dell’autore, che ha saputo spiegare concetti complessi con una prosa coincisa e scorrevole.
 

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